Nuovo live quello di Valerio Sanzotta Giovedì 26 maggio 2022 all’ Acustico Club di Roma. Il Live sarà inframmezzato da una chiaccherata informale tra il sottoscritto e Valerio
Parole davvero interessanti quelle contenute nell’intervista con l’artista a poche ore dal live. Un viaggio virtuale vero e proprio nella sua vita, tra le sue opere e le sue riflessioni filosofiche che da oggi sono un po’ anche le nostre. E visto il suo alto grado di sensibilità, che lui sa trasferire alle parole delle canzoni che scrive, c’è solo da imparare in termini di crescita interiore.
Ecco la sua intervista.
Valerio, l’incontro con la musica arriva molto presto. A 14 anni ascolti De André e ne rimani affascinato. Che disco era? Ricordi quel momento?
Doveva essere Volume III, quello con Il gorilla tradotto da Brassens e Il testamento. Ricordo perfettamente che l’incontro fu quello casuale con una musicassetta acquistata dai miei genitori in un Autogrill. Cominciava la mia fascinazione per il Medioevo (che poi mi avrebbe accompagnato anche nel mio lavoro) e avevo quasi l’impressione che la musica di De André venisse da lì, non dai nostri anni ’70. Non ti dico poi quando ho letto Villon e ascoltato Tutti morimmo a stento.
Di fatto dietro la poetica di Fabrizio De Andrè c’è a sua volta la fascinazione per Georges Brassens. E’ stato De Andrè il ponte che poi ti ha spinto nella direzione di Brassens e poi di Georges Moustaki e Jacques Brel, oppure altro?
Sì, sicuramente. De André è stato il tramite di tutte le mie scoperte, non solo musicali, per molto tempo ancora, la porta di accesso (anche per la letteratura) ben prima che arrivassero gli studi. Credo anche che abbia lasciato su di me un’impronta che resiste tuttora: non è un caso che, per quanto abbia poi molto amato la musica e la cultura anglosassone e accanto ad essa la musica romantica, che è in gran parte tedesca, io resti, in fondo in fondo, di formazione francese. Poi un giorno parleremo della Francia, che per me è come un’antica amante che non si vede da decenni ma che non si riesce a dimenticare.
Cominci a suonare nei locali giovanissimo in una parte di Roma dove si respirava un tempo la sua storia antica. Quanto ti sono stati congeniali quei luoghi per la tua crescita sia musicale sia autorale ? Sono andate sempre di pari passo?
Sì e no allo stesso tempo. Nel senso che ho sempre avuto la capacità dell’autoinganno: abitavo vicino piazza Navona e suonavo a Testaccio, ma mi ero convinto – e quasi riuscivo a crederci – di abitare a Parigi e suonare nelle caves. In questo senso Roma non è stata così influente, proprio perché l’ho sempre trasfigurata e in qualche modo trasformata.
C’è una caratteristica di Bob Dylan, Leonard Cohen, Joan Baez e Paul Simon, che ti ha colpito in modo particolare?
Direi solo del primo, che ha inciso sulla mia personalità in un modo talmente radicale da rendere impossibile il confronto con altri artisti, al di fuori di De André. A lui devo l’esperienza, più che l’idea, che in noi stessi vivano personalità multiple, vite molteplici. Dylan stesso è stato il cantautore impegnato, a distanza di due anni (che sembrano secoli) il beatnik pieno di acido e poi, dopo ancora un altro anno o due, il cantante country che imitava Hank Williams e duettava con Johnny Cash: poi il cantante gospel, il bluesman, il crooner. Attenzione, non si tratta di eleggere diverse scelte musicali (pubblicare un album country, un album beat, un album soul è una cosa banale che fanno tutti), ma di una vera e propria metamorfosi interiore e anche esteriore, una trasformazione radicale di identità, di carattere, di timbro di voce. Una molteplicità che Dylan autocelebra, ormai quasi ottantenne, in I contain moltitudes, la sua ultima canzone che è un altro capolavoro: dopo il poemetto di 17 minuti sull’assassinio di Kennedy, dove Dylan ha conteso il primato a Oh captain, my captain di Whitman scritta per Lincoln, in questa ultima canzone Whitman lo cita proprio. E che la canzone parli di sé stesso Dylan lo fa dire a Whitman in persona, visto che la poesia che contiene il verso I contain moltitudes si intitola Song of Myself. Più chiaro di così? Mi piacerebbe avere l’opinione di Alessandro Carrera, che insegna Letteratura italiana all’Università di Austin ed è il più influente dylanologo italiano, nonché traduttore e commentatore di Dylan per Feltrinelli: conservo con amore un suo biglietto che mi ha scritto dopo Prometeo liberato. Non vedo l’ora di mandargli le mie nuove canzoni. Se poi mi chiedi di passare dal piano personale a quello artistico la mia risposta sarebbe la stessa: la canzone d’autore è un genere letterario, dunque è letteratura a pieno titolo, più che musica. La distanza con Brahms, tanto per dire un nome a caso, è incolmabile per statuto, ed è pure ingenuo fare paragoni. La distanza della canzone con la poesia, che ha avuto peraltro una storia di oralità e di musicalità per millenni, è certamente minore.
Il tuo primo disco arriva nel 2002 e si intitola Migrazioni di Memoria. La somma di due concetti distinti o un gioco di parole? Quali le influenze, i temi e le finalità che lo hanno animato?
Quell’album è stato la metabolizzazione, l’approfondimento, l’interiorizzazione di Anime Salve di De André. Vi era tuttavia anche qualcosa di originale, oltre al motivo dell’unità culturale del mediterraneo, cioè il tema più scopertamente plagiato: appunto quello della memoria familiare, che risale ai nostri antenati, a prima di noi, l’elemento simbolico costituito dalla casa di famiglia, dai gesti, dal lessico familiare, dagli oggetti che attraversano le varie generazioni e si incidono nella nostra. vita. Questo è un tema che non ho mai abbandonato: la memoria e l’infanzia sono i temi fondamentali della mia produzione in versi, che non chiamo poesia per pudore, ma che scrivo e non metto in musica.
Ad un certo punto Sanremo (2008). Come è nato Novecento e come è stato confrontarsi con i primi concorsi… dopo?
Novecento è il tentativo di trasferire sul piano sociale il motivo della “memoria estesa” che innervava su quello privato Migrazioni di memoria: la considerazione che il tempo collettivo non coincide con quello biografico o biologico. Confesso che al momento avevo un’infatuazione politica per Veltroni e quel testo era anche un tentativo di costruire il mio pantheon di mitologie: la resistenza, la liberazione, la lotta al terrorismo, Moro e Berlinguer. Non la rinnego e la canto anche volentieri, però riconosco che la canzone militante non è mai stata la mia cifra.
Alla luce di tutte le influenze che ti hanno in qualche modo ispirato cosa pensi possa aver contribuito a creare il tuo stile di oggi, decisamente illuminato e mai scontato?
Non saprei, è difficile dirlo. Forse è il risultato di aver sempre cercato di fare uscire la canzone d’autore da sé stessa, per renderla una forma che potesse considerarsi letteratura a pieno titolo. A prescindere dalla qualità dei risultati, si intende.
A 10 anni esatti dalla tua partecipazione a Sanremo 2008 arriva il tuo secondo album. Mi colpisce la sottolineatura del tempo quando lo racconti nella tua biografia. Sanremo è un po’ Giove? Prometeo si libera dalle catene soltanto quando Giove (in questo caso il ricordo) viene detronizzato?
Forse la risposta, Giovanni, è nel fatto che quel mio vecchio album Migrazioni di memoria non è un album concluso ma è entrato in una sorta di riscrittura perenne. L’ho pubblicato vent’anni fa per il Parent Project, un’associazione noprofit che si occupa di Distrofia muscolare di Duchenne, fondata dal caro amico Filippo Buccella. Ma l’ho saccheggiato e lo continuo ancora a saccheggiare sia per quanto riguarda i temi che i motivi musicali, le idee, le soluzioni. Se con Novecento eravamo passati dal tempo familiare al tempo collettivo, cioè della storia, con Prometeo passiamo al tempo cosmico, quello della dopo-storia, quello metafisico. Quanto al paragone con Sanremo: non ho con il festival un rapporto conflittuale, sono stato due giorni a Sanremo durante l’ultimo festival per una breve rassegna musicale ospitata dal Club Tenco e mi sono molto divertito. I ricordi erano dolci, non avevo rimpianti né frustrazione nel percorrere le strade dove dieci anni prima firmavo autografi e ora nessuno (giustamente) mi si filava. Mi ha fatto bene tornare a Sanremo, mi sono decisamente riconciliato con il ricordo e mi sono goduto una memorabile serata alcoolica con l’amica Ilaria Cardelli, promoter, ufficio stampa, tour manager che David Bonato mi ha messo alle calcagna (scherzo!).
Che rapporto hai con il tempo ?
Il rapporto con il tempo non è facile, poiché esso si esprime sia nella gestione di quello quotidiano che nel tema della memoria, di cui abbiamo detto. Per quanto riguarda il primo ho una pianificazione spietata e scientifica delle attività giornaliere: sveglia sempre alla stessa ora, pasti a orari regolari, nulla di casuale o di improvvisato. Il che porta anche risultati positivi in termini pratici, ma riflette un forte livello d’ansia. Anzi, vera e propria angoscia per lo scorrere inesorabile del tempo, che implica la nostra fine inevitabile, da cui il tentativo di domarlo: da una parte attraverso il controllo e l’organizzazione, dall’altra attraverso la poesia della memoria (Giova ciò solo che non muore, e solo per noi non muore, ciò che muor con noi, ha detto Pascoli nell’Immortalità, meglio di tutti). L’orologio e il calendario sono i corrispettivi ansiogeni dello strumento poetico.
Cosa ti ha spinto a passare da Roma a Innsbruck?
Fondamentalmente aver trovato un posto di lavoro, dopo un periplo lunghissimo tra Germania, Belgio e Inghilterra, in un istituto di ricerca che si occupa di latino medievale e moderno, che è la mia disciplina. Un vantaggio non da poco è la vicinanza al confine, che mi permette di mantenere saldi legami con l’Italia, tanto da un punto di vista accademico quanto artistico e personale.
La tua etichetta è la Vrec/Audioglobe. Come è nato l’incontro con David Bonato?
Ho realizzato Prometeo liberato in proprio, grazie a Musicraiser. Ciò che non avevo, tuttavia, era la possibilità di poterlo distribuire e promuovere. Ho utilizzato un metodo antico, pur con mezzi moderni, ma in fondo efficace: ho scritto centinaia di email proponendolo all’ascolto. Qualcuno si è fatto avanti, il che è stato determinante per mantenere alti i livelli di entusiasmo: tieni conto che venivo da dieci anni di silenzio, avevo deciso di rimettermi in gioco e di ripartire completamente da capo. Ricordo benissimo la telefonata di David, che era rimasto colpito dall’album, poi il nostro primo incontro a Verona, la firma del contratto. A David devo molto, fuori da ogni retorica: la mia necessità di ripartire da capo e di ricostruire un nuovo profilo aveva bisogno di una guida decisa e strategicamente efficace, ma allo stesso tempo mite e amichevole. Gli sono infinitamente riconoscente.
Di Prometeo liberato cosa mi racconti? Temi, influenze, collaborazioni
Prometeo liberato è stata un’esperienza di autoanalisi. Non intendo solo per quanto riguarda i motivi dell’album, di cui abbiamo in parte già parlato, ma per le persone che lo hanno popolato, dalla fase di progettazione alla realizzazione finale. E ogni persona, come accade a tutti, porta con sé ricordi felici e insieme dolori. Il produttore è stato Ari Takahashi, che è riuscito a convogliare in una cifra stilistica unitaria tutte le mie indecisioni iniziali, i cambi di direzione, le oscillazioni, permettendomi di individuare finalmente il mio passo, un passo che avevo cercato sin dall’inizio della mia carriera senza mai trovarlo. Non solo: è stato fondamentale anche per consentirmi di sviluppare una qualche perizia tecnica nell’ambito della produzione musicale, di cui mi giovo anche adesso. Ma con Ari non ci sentiamo più tanto spesso, anche se i rapporti non sono cattivi, e di questo mi dispiace. I musicisti di Prometeo sono tutti straordinari, in particolare Daniele Bazzani, che ora è il mio insegnante di chitarra acustica, un chitarrista e un didatta che chi conosce il panorama della chitarra fingestyle in Italia certamente non ignora. Ma più di tutti è caro il ricordo del batterista Antonio Santirocco (il Sindaco, come a Roma sanno tutti), al quale mi legava non solo un’amicizia profonda, ma anche la parentela, dal momento che era mio cognato. Da quando ci ha lasciato mi è più difficile ascoltare Prometeo liberato, lo faccio solo per studiare nuovi arrangiamenti dei brani, ma non per svago. Il ricordo è recente e la ferita è dolorosa. D’altra parte si affaccia un sorriso, benché malinconico, si quando penso che in fondo questo è il modo migliore per ricordarlo e celebrarlo, e quello che lui avrebbe preferito: la sua musica, anzi: le sue randellate sul rullante, l’insofferenza per il click del metronomo e la gioia infinita di suonare.
Tra i tuoi brani anche un singolo che regista una featuring con Diana Tejera.
Come è nato questo incontro. Ritorna la tua attenzione in musica verso temi importanti in occasione della Giornata Mondiale Contro la Violenza sulle Donne?
Il singolo uscito il 25 novembre scorso, appunto la Giornata Mondiale Contro la Violenza sulle Donne si intitola It’s Sunday in this Mirror e fa parte di un nuovo album, prodotto da Lorenzo Scrinzi negli studi del Nologo a Laives (Bolzano), sempre ovviamente per l’etichetta di David. In molti hanno notato un’analogia con Novecento e forse in qualche misura è un’impressione corretta: ma certamente non segna un ritorno ai temi sociali, pur essendo questa una canzone fortemente impegnata. In questo nuovo album ho provato a riflettere sul femminile e sullo schema di dominio che non solo l’uomo, ma la componente maschile e virile, impone su quella femminile. Questo vale per i campi più disparati: dalla virulenta dichiarazione pubblica (l’aggettivo deriva da virus, veleno, ma a me che piacciono le paraetimologie, cioè le etimologie farlocche, mi piace far discendere da vir, uomo) che irride l’analisi meditata, al bambino vittima di bullismo, l’artista che non regge il palcoscenico e via dicendo. Per cominciare con It’s Sunday in this Mirror, ho proposto a Diana di partecipare con la sua voce e il fatto che abbia acconsentito mi ha riempito di autentica gioia. La seguo da moltissimo tempo, da quando la sentii la prima volta in concerto insieme con il mio produttore di allora, Alfonso Anagni (era stato il produttore di Migrazioni di memoria). Ne è nata, credo, una buona amicizia, insieme abbiamo presentato spesso la canzone nei giovedì di Riprendiamoci Trastevere che Diana organizza al Big Star di Roma, abbiamo girato il video alla Casa Internazionale delle Donne di Roma (lo ha girato Stefano Santini, regista e persona straordinaria). Spero di poter presto suonare con lei all’Arciliuto, un luogo che mi è particolarmente caro e chiunque ami l’arte e la musica dovrebbe frequentare regolarmente. Ne approfitto per salutare Enzo, Giovanni e Daniela Samaritani, aspettando di rivederli dopo la pandemia.
E cosa mi racconti dei tuoi nuovi progetti?
A parte l’imminente uscita del prossimo singolo, che è una canzone scritta in memoria di Nick Drake, vi è il resto dell’album, del quale svelo solo che vi saranno altre importanti collaborazioni oltre quella con Diana. I progetti comunque sono molti, benché ancora indefiniti: un mini album con canzoni di Leonard Cohen, una raccoltina poetica e l’album successivo, di cui ci sono già tre brani (di cui uno ispirato a un tema del compositore cubano Leo Brouwer, la cui conoscenza devo al sempre fondamentale insegnante, nonché caro amico, Carmine Catalano), nessun testo ancora ma una tematica già definita: quella dei “Dolori precoci”, per riprendere il titolo di una miracolosa raccolta di brevi racconti di Danilo Kiš, scrittore grande e invisibile, come lo definiva Milan Kundera. Ovvero quelle minime sofferenze dell’infanzia – minime per gli adulti, non per il vissuto emotivo dei bambini – che in qualche modo forgiano il nostro carattere, ne determinano la sostanza, ci dicono chi saremo. Kiš si definiva un poeta mancato, ma era veramente, autenticamente, poeta. Vediamo se sarò capace di rispettarlo.
E… (c’è un messaggio che vuoi lanciare? Un ‘ultima considerazione nella quale dire ciò che magari non ti è stato mai chiesto?)
Tra le persone importanti per la mia carriera ci sei anche tu, Giovanni.
di Giovanni Pirri
ACUSTICO CLUB
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